La violazione degli obblighi di fedeltà
Secondo una recente pronuncia della Corte di Cassazione (sentenza n. 3186/2017), la violazione dell’obbligo di fedeltà derivante dall’art. 2105 del codice civile non richiede che l’attività di concorrenza sleale sia attuata, anche gli atti compiuti potenzialmente lesivi degli interessi del datore di lavoro sono sufficienti a configurare la condotta illecita.
Secondo la suprema Corte infatti, l’obbligo di fedeltà a carico del lavoratore subordinato ha un contenuto più ampio rispetto ai divieti espressamente previsti dall’art. 2105 c.c., perché detta norma deve essere integrata con gli artt. 1175 e 1375 c.c., che impongono correttezza e buona fede anche nei comportamenti extralavorativi.
Il lavoratore è pertanto tenuto ad astenersi da qualsiasi condotta che risulti in contrasto con i doveri connessi al suo inserimento nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa o crei conflitto con le finalità e gli interessi della medesima o sia comunque idonea a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto.
Secondo quanto esposto quindi, nonostante l’ipotesi formalmente prevista dall’art. 2105 c.c. postuli il compimento di atti, sia pure iniziali, di gestione di attività concorrente ai fini della violazione dell’obbligo di fedeltà nei termini più ampi sopra intesi, assume rilievo anche la mera preordinazione di attività contraria agli interessi del datore di lavoro, ivi compresa la attività del dipendente volta alla costituzione di una società o di una impresa individuale avente ad oggetto la medesima attività economica svolta dal datore di lavoro.